‘Un Chant D’Amour’, Drammaturgia di un Erotismo Negato

Drammaturgia di un erotismo proibito. Poesia su un amore reale ma concretizzabile solo nel ricordo o nel disperato tentativo di esserci. Rivedere oggi ‘Un chant d’amour’, unica opera filmica di Jean Genet, resta un’esperienza intensa, devastante.
Come devastante è il legame che tiene avvinghiati i personaggi del dramma, prigionieri di sbarre e mura invalicabili che i due tentano di superare per amarsi. Laddove l’amore è il ripetuto tentativo di scambiarsi un mazzo di fiori da cella a cella, oppure far arrivare il fumo della propria sigaretta all’altro soffiando in una piccola crepa del muro.
Proviamo ad immaginare l’arditezza e il coraggio nel girare una pellicola che parla esplicitamente di amore omosessuale nel 1950. Un bianco e nero muto, perciò ancora più potente nell’espressionismo figurativo. Dare vita ad un’opera che trasuda erotismo ovunque la si guardi: nella sensualità del gesto con cui il primo prigioniero si massaggia il tatuaggio riscaldato dal fumo proveniente dalla bocca del suo amato, nel suo solitario accenno a movimenti di danza (il suo look da ‘male stud’ in logora canottiera bianca mi ha ricordato molto il Massimo Girotti di ‘Ossessione’, sexy vagabondo fatale per Clara Calamai).
Ancora, erotico e voglioso è lo sguardo con cui il secondino spia dalla feritoia delle celle la noiosa routine carceraria, ammirando i corpi discinti rinchiusi, persi in desideri di libertà e pratiche masturbatorie. Addirittura spunta, poco dopo il settimo minuto, una scena di ‘sega esplicita’, accolta dal secondino con sorrisetto compiacente.
Il sesso agognato e ricordato nei flashback è l’unica via di fuga per una contingenza fatta di incomunicabilità. Ecco dunque che i ricordi dei due detenuti sono contestualizzati all’interno di scene en plain air, solari e ariose, laddove la brutalità del presente è racchiusa nel buio sporco della cella angusta e spoglia.
Non resta allora che tentare d’amarsi come si può: attraverso piccoli e disperati gesti mortificati dalla fredda parete. Parete su cui i detenuti si sfregano con lascivia e indolenza, nel tentativo di un abbraccio consapevolmente destinato a fallire.

Jean Genet è stato poeta, scrittore, drammaturgo ma soprattutto spirito libero e maudit, attratto dalla marginalità nelle sue incarnazioni più virili. La figura del macho costituisce il suo modello d’erotismo prediletto. Non mi meraviglierei se fosse rimasto catturato dalla maschia volgarità del Marlon Brando di ‘Un tram che si chiama Desiderio’, di cui i carcerati di ‘Un chant d’amour’ incarnano il sex appeal promiscuo e irriverente. E’ facile leggere questo suo ‘cult movie’ in chiave metaforica: il sesso e l’amore gay visto come una sorta di prigionia dell’anima e della carne ordita dal senso comune. Quello stesso senso comune in nome del quale il secondino, pur eccitandosi di fronte ai barlumi di erotismo omosessuale, tende poi a rinnegare il tutto a se stesso, soffocando fantasie sconce in nome di una violenta affermazione dell’ordine costituito (ovvero il pestaggio ai danni del detenuto del quale poco prima ha fantasticato con voluttà).
A mio modo di vedere però l’opera, pur partendo da una messa in scena simil teatrale di una discriminazione oggettiva, si apre ad una lettura universale del concetto di ‘amore contro’, di passione sfuggente, tanto più negata quanto più cercata e inseguita col corpo e con la mente. La conquista non sta nel riuscire ad amarsi, ma nel ripetere ossessivamente il tentativo di farlo, anche se da soli. Ecco spiegato quel monotono ciondolare dei fiori, che sfuggono dalla mano del destinatario proprio quando se li ritrova prossimi, possibili, praticamente raggiunti. Eppure una speranza c’è: alla fine il pugno del secondo carcerato riesce ad afferrare l’omaggio dell’amante nella cella adiacente.

A proposito dei personaggi di Genet si è parlato di ‘pasolinismo’ per la loro collocazione in contesti ‘di vita’, delinquenziali e comunque marginali. Suppongo che il trait d’union tra ‘Un chant d’amour’ e certe opere dello scrittore e regista friulano – soprattutto letterarie (si pensi ai capitoli più espliciti di ‘Petrolio’) – vada cercato nella comune volontà di narrare la propria omosessualità che, guarda caso, trova ideale nella medesima tipologia maschile. Si tratta di una suggestione interessante, pertinente, ma non la forzerei troppo a meno di non imbattermi in uno scritto che dimostri un legame oggettivo e consapevole tra i due intellettuali, cosa che al momento ignoro.

Resta dunque l’eccezionale tensione emotiva e l’esasperata sensualità di questo gioiello, a mio avviso autentico pioniere di qualunque discorso possa essere fatto in ambito di cinema LGBT.

Su Vimeo la versione integrale di ‘Un Chant D’Amour’